Incontrarli non era difficile. C’è stato un periodo che scorrazzavano per le strade della Campania, attraversando in lungo e in largo la nostra terra. Che era la loro: amatissima e troppo presto abbandonata perché, si sa, chi vuol diventare corridore deve andar via. Il circuito di quelli forti, delle squadre con sponsor e potenzialità enormi è altrove. E quei bravi ragazzi, che per oltre un decennio resero temutissime le pedalate campane in giro per il mondo, con la sensazione dell’emigrante, divenuto orfano per scelta, ebbero a coesistere. Semplicemente perché non c’era altra strada per coltivare i sogni. Nei periodi in cui si era lontani dalle corse, le rimpatriate con lunghissimo chilometraggio, necessario per rodare la gamba in vista della nuova stagione li riconduceva lì dove tutto era incominciato.
Chi ne scrive ebbe il privilegio di viverli quei bravi ragazzi, di ammirarne affascinato il talento e le immense potenzialità, di accarezzarne le speranze ogni qualvolta il gruppone dei professionisti gareggiava con istinti famelici. Da Arzano arrivava Giuliano Figueras, campione del mondo dei dilettanti nel 1996, quindi pro tra i più forti del circuito mondiale. Nel 2007, dopo vittorie prestigiose ed altre sfiorate d’un pelo come la piazza d’onore al Lombardia del 2001, Figueras stracciò un contratto di 400mila euro con la Lampre-Fondital e staccò il telefono. Non volle più saperne. Oggi, di tanto in tanto qualcuno lo incontra mentre pedala con la classe e il disincanto di sempre. E’ leggenda per come riusciva a vincere, con la facilità propria dei grandi. Ma lì in mezzo, tra quei bravi ragazzi c’era di tutto. Il napoletano Antonio Bucciero non temeva nessuno in volata, il casoriano Pasquale Muto non si staccava in salita neppure se gli foravi i copertoncini, Antonio D’Aniello da Marianella, campione italiano a Saltara tra i dilettanti nel 2003, aveva una fucilata negli ultimi due chilometri che lo rendeva il finisseur più temuto in circolazione.
Lo si chieda a gente come Vincenzo Nibali e Leonardo Ballan. Ma nel gruppetto di quei bravi ragazzi facevano girare le pedivelle professionisti come Domenico Romano, Raffaele Illiano, Antonio Salomone, Filippo Perfetto, Antonio Varriale, Raffaele Ferrara. Era uno spettacolo ogni qualvolta si ritrovavano dal momento che l’allenamento diveniva una sfida piena zeppa di sorrisi, confidenze, racconti e quella fatica che li rendeva un tutt’uno. Perché il ciclista un po’ matto deve esserlo per sobbarcarsi tanta sofferenza. E perfino arrivare a goderne. Non ha più avuto la Campania un serbatoio tanto nobile di corridori. Chissà quando capiterà di nuovo di poter gioire per un oro mondiale, quello di Figueras nel 1996, e l’anno dopo di quel biondino castano bellissimo e guascone, furbo e temerario che rispondeva al nome di Crescenzo D’Amore e che sul circuito di San Sebastián divenne iridato tra gli juniores con una volata al fulmicotone. Era forte D’Amore, arrivava da Brusciano e nella vita non ha mai tirato i freni. Sempre a tutta, ignaro di cosa fossero le mezze misure o i mezzi colori: «Crescenzo è fatto così, – diceva il papà Franco, insegnante con la passione per il ciclismo – o lo si accetta per quello che è o si perde tempo».
Il campioncino del mondo passò professionista alla corte di Squinzi nel 2000, in quella Mapei-Quickstep che vantava fenomeni del calibro di Baffi, Bartoli, Bettini, Cancellara, Freire e ancora Pozzato, Rogers, Tafi, Tonkov. Era un predestinato Crescenzo, il ragazzo velocissimo che disdegnava l’uso dei freni. Genio e sregolatezza che ne condizionarono i risultati. Vinse una sola volta in maglia Mapei, in Argentina, e ogni qualvolta che la corsa finiva in volata D’Amore il biondo ci si buttava a capofitto, col ghigno simpatico che sfidava chiunque, anche i treni più attrezzati delle multinazionali dello sprint. Non a caso, la più bella affermazione da professionista, con la maglia della Acqua e Sapone di Palmiro Masciarelli, la colse nel 2004. Si correva la terza tappa della Settimana Internazionale Coppi e Bartali, e dopo 175 chilometri il plotone prometteva di esplodere sul traguardo di Scandiano.
«Raramente ho visto numeri del genere. – ci racconta un commosso Antonio D’Aniello – Era una giornata fredda di fine marzo. A tre o forse quattro chilometri dal traguardo, mentre tutte le squadre erano alle prese con le rotazioni ad altissima velocità, per preparare l’assalto conclusivo dei leader, Crescenzo tirò giù i gambali e sfilò il gruppo tirando fuori un numero esagerato. Vinse davanti ad un principe della volata come Ian Svorada. E avrebbe potuto farlo in molte altre occasioni. Un paragone? Aveva numeri alla Cipollini. Gli ho visto fare testa a testa con Alessandro Petacchi, Danilo Hondo, perdere d’un soffio al Giro d’Italia da Robbie McEwen o Daniele Bennati. Ha tuttavia voluto una vita spericolata, non solo in gara come capita a tutti gli specialisti della volata. Siamo cresciuti insieme, sin dalla categoria giovanissimi.
Eravamo amici fraterni, in corsa però provavamo ogni volta a superarci».
Quei bravi ragazzi partiti dalla Campania per farsi grandi sulle strade del mondo, gareggiarono quasi tutti fino al 2011 con alterne vicende. Poi ognuno prese il suo percorso. Quello di Crescenzo D’Amore, per gli amici Crash, fu tutt’altro che facile. Poche gioie e tanta instabilità nel lavoro, quindi una forma aggressiva di leucemia che lo portò a sottoporsi al trapianto di midollo e ad una serie interminabile di controlli. Crash non perdeva il ghigno, non voleva smettere di spingere sull’acceleratore di una vita a tutta. Anche dopo aver sposato Maria Rosaria e aver avuto una splendida bambina.
«Qualche anno fa riunii alcuni degli ex professionisti per una cena, sapevo che a Crescenzo avrebbe fatto piacere. – continua D’Aniello – Neppure la malattia lo aveva rallentato. Parlammo e ridemmo tanto, poi ognuno tornò ad occuparsi delle proprie cose. D’Amore a combattere nella freneticità senza la quale secondo me non riusciva e non voleva stare. Quanti ricordi mi sono balzati alla mente dopo la terribile notizia. Quanto abbiamo sognato insieme, ci sentivamo forti, fortissimi. Imbattibili. Lui avrebbe potuto diventarlo».
C’erano tanti di quei bravi ragazzi questa mattina, nella gremitissima Parrocchia San Sebastiano Martire di Brusciano che ha inteso rendere l’estremo saluto al suo campione.
Nella notte tra sabato e domenica l’auto di Crash correva velocissima, affrontando i tornanti che il biondo dal ghigno beffardo conosceva a menadito. Era cavallo alato o semplicemente una biciletta fiammante. E l’acceleratore da tempo era divenuta la leva del cambio con la quale il tremebondo velocista campione del mondo, nella successione disordinata di immagini e ricordi che la sua mente faceva scorrere, tirava giù il 54×12 per fronteggiare gli avversari più spietati. “Perché Crash non li teme”, si sarà forse ripetuto ancora una volta in vista della curva. Lì qualcosa non ha funzionato: è uscito lungo D’Amore e i rilevamenti effettuati con il Gps avrebbero evidenziato una velocità di 161 km orari. Tanti, troppi per provare a frenare. Crescenzo non lo ha fatto, lui che in corsa era solito lanciarsi “alla morte” verso la fettuccia. «Tirali via i freni, non mi servono» diceva agli amici. L’auto si è ribaltata, più volte prima di fermarsi tra le sterpaglie alte. All’arrivo dei soccorritori lui, il biondo di quei bravi ragazzi era già andato via da tempo. A correre altrove, a sfidare un’altra vita. Perché questa proprio non poteva bastargli.
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