Sono 62 le startup nate da ex dipendenti di Klarna, la fintech company svedese dei pagamenti a rate, 49 quelle generate dalla banca online Revolut e 33 da Wise, la scaleup dei trasferimenti di denaro. Presi nel loro complesso, i 98 unicorni – cioè startup che valgono 1 miliardo di dollari – fintech presenti in Europa e Israele hanno generato dalla loro nascita un totale di 625 startup. Lo rivela il Fintech Founders Report di Accel e Dealroom, pubblicato a fine ottobre.
È questo un segnale di grande vitalità di un ecosistema, e ci riporta all’epoca in cui imprenditori del calibro di Reid Hoffman ed Elon Musk, a seguito della vendita di PayPal a eBay nel 2002, lasciarono PayPal e con i capitali guadagnati fondarono imprese di grande successo, tra cui LinkedIn e SpaceX. Imprenditori che, a seguito di una famosa foto di copertina che la rivista Fortune dedicò loro nel 2007, divennero noti con il nome di “PayPal Mafia”. Ne abbiamo parlato con Paola Bonomo, Vicepresidente di Italian Angels for Growth e componente del Comitato Investimenti del fondo di Vc Neva First.
Ex dipendenti di startup che creano altre startup: oltre al fintech esistono altri esempi in Europa?
«L’esempio da manuale è quello di Skype: sono 910 le nuove aziende fondate da chi aveva lavorato in Skype, di cui 15 unicorni, 65mila i posti di lavoro creati e nove i fondi di Venture capital lanciati, che a loro volta hanno investito in altre 1.800 startup».
Succede anche in Italia o è fantascienza?
«In Italia non abbiamo aziende che abbiano avuto questo impatto sull’ecosistema. Prima o poi succederà – Bending Spoons potrebbe forse essere la nostra Skype? –, ma è mancata un po’ di “fame” imprenditoriale da parte di chi ha avuto successo cavalcando la fase di crescita di una scaleup e, pur avendo tutte le carte in regola per diventare a sua volta imprenditore, ha scelto (legittimamente) altri percorsi. Non è un fenomeno solo del tech: nonostante imprenditori geniali come Brunello Cucinelli o Miuccia Prada abbiano creato degli imperi, sono stati pochissimi i loro collaboratori che hanno poi a propria volta fondato aziende di successo».
Fenomeno leggermente diverso è quello dei serial entrepreneurs (non ex dipendenti che creano nuove startup ma fondatori)…
«Questo è un segnale recente molto importante. Il precursore di questo trend è stato Stefano Buono, che dopo l’esperienza di Advanced Accelerator Applications, fondata nel 2002 con l’obiettivo di sviluppare innovazione del campo della medicina nucleare e oggi quotata al Nasdaq, ha lanciato Liftt, Planet Smart City e Newcleo».
Che momento sta vivendo l’ecosistema italiano delle startup e dell’innovazione? Ci dici tre cose positive e tre negative?
«Positive: il tema di cui abbiamo appena parlato, ovvero gli imprenditori seriali; l’attenzione e l’interesse dei fondi internazionali per le startup italiane; e la crescente professionalizzazione nel mondo degli angel investor. Negative: il costante disinteresse per le opportunità e carriere imprenditoriali da parte del sistema formativo e di quasi tutte le università, cosa che penalizza forse ancora più le ragazze che i ragazzi; la mancanza di un mercato secondario per la cessione di quote illiquide; e, soprattutto, la difficoltà nelle exit, a causa dell’assenza (in Italia, ma anche in Europa) di grandi aziende acquisitrici seriali di aziende più piccole».
Come si pone all’interno dell’ecosistema il settore delle life science e quali sono le sue prospettive?
«Il settore delle life science è tra i più globalizzati, perché nonostante le differenze tra i mercati e le barriere regolatorie, la biologia umana è uguale ovunque. In questo contesto, i risultati scientifici portano le grandi aziende, che fanno scouting su base globale, a interessarsi delle startup dovunque esse nascano: per esempio Resalis, che lavora sulle terapie a base di RNA per i disturbi metabolici complessi, ha di recente ricevuto un investimento da Sanofi. Nei prossimi anni potremo vedere al lavoro nuovi modelli di AI sempre più efficaci nel supportare i ricercatori. Capiremo meglio i meccanismi dell’invecchiamento e riusciremo a porre su basi più scientifiche il tema della longevità. Si tratta di un’enorme opportunità per coniugare ritorni economici e felicità umana».
Nelle life science può succedere questo fenomeno di “proliferazione” di startup evidenziato dal report di Accel in relazione alle fintech?
«Sarebbe un’ottima notizia! Credo però che il ciclo di maturazione di una storia di successo nel biotech sia un po’ più lungo: questo impatta sul tempo di riproduzione da una startup a un’altra».
Investimenti che non impennano, un ecosistema che fatica ad acquisire credibilità, poche exit: l’Italia è un paese per startup?
«L’Italia ha il problema di essere l’Italia, come l’Europa quello di essere l’Europa. Nei prossimi anni ci giochiamo molto. Se come europei riusciremo ad avere uno scatto di reni, sono sicura che gli imprenditori e le imprenditrici italiani saranno in prima fila».
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